Autrui, il volto d’altri
Il rapporto con la morte ed i numeri delle vittime sono un tema d’incredibile portata nella Seconda Guerra mondiale. Tuttavia insistere su cifre non dimensiona la portata della tragedia. Molto meglio riflettere sulla storia di una singola persona e sulla responsabilità etica che deriva dalla sua scomparsa.
Tanti film hanno tragicamente documentato lo sterminio sistematico degli Ebrei nei campi di concentramento nazisti. In essi risiede sempre il problema del perché tutto questo sia accaduto. Tra tutti, quello che offre una delle risposte della filosofia ebraica alla nuova visione della morte dopo la Seconda Guerra mondiale è Schindler’s List. Il motivo va ricercato in un assunto di fondo che la vicenda narrata vuole immediatamente evidenziare. Milioni di morti rappresentano sicuramente cifre e dati, ma solo nell’immaginario collettivo. Purtroppo ci rendiamo conto che un numero non dice nulla d’immediato anzi, talvolta paradossalmente è oggetto di discussione ed appare distaccato dalla nostra dimensione di comprensibilità immediata. Parafrasando il romanzo di John le Carré La spia che venne dal freddo, la frase di Stalin che sostiene che un milione di morti è una statistica mentre un uomo ucciso in un incidente stradale è una tragedia nazionale è più che mai verosimile. I punti di contatto tra la trama ed una sua disamina filosofica sono molteplici, ma per ragioni di sintesi può essere utile sottolinearne tre. La guerra è finita. L’imprenditore Oskar Schindler ha salvato centinaia di vite impiegando come operai gli ebrei destinati a morte sicura, ma formalmente fa parte del Partito Nazista: di sicuro i soldati sovietici non sarebbero teneri con lui se lo catturassero. Al momento del suo congedo, i suoi operai gli consegnano una sorta di salvacondotto: un documento firmato in cui dichiarano ciò che lui ha fatto durante la guerra ed un anello da loro stessi forgiato, utilizzando il poco oro rimasto tra le macerie di un mondo che non esiste più.
Nella fede viene incisa una frase del Talmud, un caposaldo dell’ebraismo poiché è un perenne commento ed attualizzazione dei libri della legge. La scritta recita “Chiunque salva una vita salva il mondo intero”. Oskar è visibilmente commosso. Ma è anche scosso. Pensa che forse avrebbe potuto fare di più, magari vendendo i suoi beni. Ogni oggetto posseduto e non venduto per salvare altri uomini è un atto non compiuto nella mente di questo illuminato industriale.
Uno scenario quasi totalmente in bianco e nero. Una nota cromatica, quasi un tratto di evidenziatore o una pennellata. Il colore? Il rosso del cappottino di una bambina che è tra gli sfortunati sgomberati del ghetto di Cracovia, il cui destino è facilmente immaginabile quando di lei non resterà che il suo abito. Il cappottino passa inosservato tra decine di altri vestiti trasportati, verosimilmente tutti appartenevano ai prigionieri del campo di concentramento di Cracovia.
Fermarsi, sospendere i lavori, abbattere le fondamenta dell’edificio in costruzione e riedificarlo. Piccoli passi operativi che un caposquadra edile ben conosce. Ad urlare ai suoi operai che questo è necessario è una giovane. Dichiara a gran voce il suo nome, Diana, dopo essere stata interpellata da Amon Göth in persona. Afferma di essersi laureata in ingegneria presso l’Università di Milano e che le conseguenze di un mancato intervento sulla baracca sarebbero state irreparabili, poiché sarebbe crollata. Göth è freddo come suo solito, ma ha davanti a sé “un’ebrea istruita”. Ordina al suo luogotenente Albert Hujar di spararle, ma non in disparte, lì, davanti a tutti. La ragazza dichiara di aver semplicemente cercato di fare il suo lavoro. Il comandante replica che anche lui sta facendo il suo. Le ultime parole della giovane sono <
Hujar dice che è sicuro che lei abbia ragione e le spara in testa. Questa esecuzione non scuote, distrae o spaventa nessuno dei lavoratori e Göth dice di fare esattamente ciò che “l’ebrea istruita come Karl Marx” aveva consigliato: abbattere, riedificare le fondamenta e ricostruire correttamente.
Cadaveri ammonticchiati, vittime casuali dei colpi di fucile di precisione a distanza per il puro divertimento di Amon Göth, esecuzioni esemplari, deportazioni. Queste persone non hanno una storia ed un nome per chi le uccide. Ma nessuno ci fa caso. La spiegazione deriva da una visione differente del senso di responsabilità che la morte dovrebbe suscitare in noi. Rispetto ad un cadavere, la colpa non è ascrivibile solo a chi ne abbia causato la fine della vita, ma anche a chi è indifferente rispetto alla sua presenza. Questo sconvolgente paradigma è stato proposto dal filosofo e talmudista ebreo Emmanuel Lévinas nella sua opera Totalità e infinito. Il termine chiave diventa autrui, cioè altri, l’altro uomo. Riflettiamo poco sul fatto che la morte è un qualcosa di non esperibile in vita se non attraverso la morte d’altri: l’alterità non è minacciosa, non usa armi contro di noi ma dovrebbe suscitare interesse sul perché questi sia stato ridotto a minorità o, addirittura ucciso. Lévinas la chiama epifania del volto. Il suo solo manifestarsi dovrebbe suscitare in noi qualcosa. Per evitare che qualcosa possa riaccadere, secondo Lévinas, l’unico modo è partire da un singolo “volto d’altri” che potrà suscitare in noi attenzione in primo luogo alla sua vicenda individuale e, nel caso della Shoah, anche ad un’intera comunità. Si badi: da un punto di vista morale e penale milioni di morti sono chiaramente da condannare più di un singolo uomo ucciso, ma il senso dell’attribuzione di una colpa è impossibile da cogliere di fronte a numeri enormi, esattamente come accade per una sanzione economica: essa è comprensibile se è potenzialmente saldabile dal singolo trasgressore. Nel salvare anche solo una vita, Schindler ha compreso il carattere di questa nuova forma di responsabilità: chi muore non risponde e non interagisce più con noi, ma il suo è un “assordante silenzio” se muove la nostra volontà a ricercarne la storia, la vicenda e a salvare autrui, un altro uomo.
Parerga e Paralipomenass
Interrogato il morto, non rispose
Il codice penale borbonico prevedeva una procedura molto particolare che poteva avere la sua concreta utilità. Quando si veniva aggrediti, malmenati o rapinati, bisognava rilasciare una dichiarazione a seguito di un breve interrogatorio che la gendarmeria metteva in atto. In questo modo era più facile risalire al movente ed all’identità dei delinquenti che si erano macchiati di un delitto. Il problema è che questa procedura veniva applicata pedissequamente in ogni caso, anche se la vittima era morta. Come per ogni occasione precedente, il funzionario di pubblica sicurezza stilava un verbale e di fronte al silenzio del cadavere, replicava con un perentorio e stereotipato testo: interrogato, il morto non rispose. Questa locuzione che i campani ben conoscono, si utilizza tra il serio ed il faceto, anche di fronte al silenzio che un candidato palesa in una prova d’esame. Queste parole sono quanto di più profondo Emmanuel Lévinas voglia evidenziare nella sua produzione filosofica. Il silenzio di un morto è inquietante. Il non poter più parlare, anche se non siamo noi i suoi reali carnefici, ci mette immediatamente in uno stato di responsabilità indotta, in una situazione di minorità derivata dal nostro stesso essere ancora vivi e dover dare testimonianza diretta di quella morte. A questo ha pensato secoli prima la storia dell’arte quando ha voluto immortalare un cadavere protagonista del dipinto Lezione di anatomia del dottor Tulp. Rembrandt firma e data l’opera: 1632. In quel tempo in ambiente protestante era diffusa la dissezione di cadaveri a scopo scientifico e questa poteva essere effettuata solo nei mesi freddi ed immediatamente dopo la morte, data l’assenza di impianti di refrigerazione. Il gesto del medico implica la volontà di mostrare il funzionamento dei tendini dell’avambraccio. Ma la storia di quel corpo morto è nota: si tratta di Adrian Adrianeszoon, un ladro impiccato pochi minuti prima di quella che sarà la lezione del dottor Tulp: dal patibolo al servizio della scienza. L’arte rende ancora vivo un morto, soprattutto attraverso la definizione della sua memoria, un omaggio di Rembrandt al medico, che sembra armeggiare con tavolozza e pennelli mentre pratica la dissezione di un corpo.
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Scheda del film
Regia
Steven Spielberg
Titolo originale
Schindler’s List
Durata
195 minuti
Genere
Biografico, storico, drammatico
Data di uscita
1993
Dettagli dell’opera
Titolo
Lezione di anatomia del dottor Tulp
Autore
Rembrandt
Tecnica
Olio su tavola
Realizzata nel
1632
Ubicazione