Sorvegliare e punire: la pena di morte come inutile vendetta
L’atteggiamento di chi accompagna verso il trapasso i propri simili dovrebbe essere distaccato e freddo, funzionalmente ad un compito da eseguire in modo seriale e standardizzato. Comprendere che sul patibolo c’è sempre un individuo, ribalta ogni visione del carnefice come mero esecutore di una sentenza.
Albert Pierrepoint è figlio e nipote di esecutori di giustizia, meglio definibili come boia. A soli undici anni ha scoperto la professione del padre, attraversando periodi di lunga gavetta fino ai suoi trentasei anni, dove diventa il carnefice ufficiale del Regno Unito. Queste vicende non ne scalfiscono il carattere bonario e generoso. Albert è un marito fedele e premuroso, da bravo inglese frequenta il pub, beve e canta con i suoi conoscenti.
Come alcuni dei suoi illustri predecessori, annota su di un taccuino i nomi e le particolarità fisiche di tutti i condannati. Allo stesso tempo è un autentico scienziato della botola, del patibolo, delle leve e dei contrappesi. Nessuna delle sue vittime penzola a lungo dalla corda.
Tutti si ritrovano il collo frantumato ed il midollo spinale spezzato in due istantaneamente. Rapidità, efficienza, professionalità sono unite ad un operato da gentleman. Pierrepoint porge un cappuccio bianco sul volto dei morituri, fissandoli in modo confortante.
In passato figure come il romano Mastro Titta, al secolo Giovanni Battista Bugatti, ed il parigino Charles-Henri Sanson non avevano mai mostrato ritrosia e pentimento per il proprio lavoro. Invece, Albert comincia a soffrire di sensi di colpa. Non solo gli inevitabili litigi con la moglie ne scalfiscono la sicurezza, ma anche l’opinione pubblica comincia a non riconoscere più il valore della sua missione. Le notti vengono passate senza riuscire a prendere sonno.
La Seconda Guerra mondiale è finita: non vi sono più spie o criminali di guerra nazisti da giustiziare, ma solo personaggi noti alle cronache. Albert è sempre pieno di dubbi, fino a quando la sua posizione sulla pena di morte sarà ben definita. A seguito di un doloroso momento di gelosia, il suo più caro amico si macchierà di un delitto. Pierrepoint sarà costretto ad impiccarlo, più che mai senza poter negare ai presenti un forte coinvolgimento emotivo.
Nel 1956, dopo ben seicento e otto condanne eseguite in venticinque anni di carriera, Pierrepoint si dimette. Ha solo cinquantun anni e potrebbe ancora andare avanti per molto tempo, ma la frase che lascerà in memoria ai posteri è incredibile per un ex boia “il frutto della mia esperienza ha quest’amara radice: la pena di morte, dal mio punto di vista, non ha sortito nulla se non la vendetta”. Parole significative che Michel Foucault riprenderà nel suo celebre saggio “Sorvegliare e punire. Nascita della prigione” del 1975. Relativamente alla pena di morte, Foucault ha una chiara posizione di abolizione radicale, motivata da una lunga disamina del perché essa sia stata applicata per millenni. Come Pierrepoint, Foucault è convinto che la condanna capitale nasca sicuramente dalla volontà di rendere esemplare la pena, ma soprattutto da una vendetta che il sovrano deve esercitare sul corpo del reo. Si tratta di una sorta di emanazione di un diritto divino del re che si estende sul patibolo. Ma la contropartita talvolta pagata dal monarca è la sommossa dei presenti, indignati dalla ferocia del supplizio. Non a caso, per evitare che potessero scoppiare dei tumulti, col tempo i patiboli sono stati montati in luoghi non aperti al pubblico. Lo stesso Pierrepoint svolgeva il proprio compito in carcere, in dei capannoni o nella Torre di Londra. L’origine della pena capitale risiederebbe pertanto non nel nobile e plurisecolare uso del diritto e della forza, ma nella vendetta, uno dei più bassi istinti umani.
PARERGA E PARALIPOMENA
Diseguali nella morte
Tra le numerose riflessioni sulla pena di morte, Michel Foucault rimarca anche la diseguaglianza che risiede nell’infliggerla. Non tutte le esecuzioni capitali sono le stesse. La parola chiave è solo una: supplizio. Infatti, lo status del prigioniero che sconta una pena, consistente nella privazione della sua libertà, ha meno di duecento anni. Per secoli, la carcerazione era solo una situazione temporanea. Si sarebbe usciti di galera o perché finalmente liberi o per essere condannati a delle forme di tortura o morte. Foucault cita un caso per tutti: quello dell’attentatore di Luigi XV di Francia. Il suo nome era Robert Francois Damiens, ed è l’emblema del supplizio pubblico che deve risultare violento e pedagogico. Lo scopo? Educare i bambini a non compiere lo stesso gesto che avrebbe portato al patibolo il reo. Il risultato è sempre stato fallimentare. Anzitutto, folle di piccoli spettatori, indottrinati alla cultura del sangue, restavano indifferenti agli strazi di un moribondo. Persino Damiens, ridotto ad un tronco umano, vedeva la folla solo parzialmente coinvolta nel suo patimento. Le memorie di Casanova, presente all’esecuzione, sono una viva testimonianza di questo principio foucaultiano. Inoltre, le giovani menti non hanno chiara un’altra componente retorica che risiede nelle varie forme di condanna: quello della diseguaglianza. Notoriamente, la Rivoluzione francese avrebbe posto fine al principio che si veniva giustiziati asimmetricamente. Ai nobili, ad esempio, veniva in genere assegnata la più onorevole decapitazione, cosa che il popolo degli impiccati, mazzolati, squartati, crocefissi e bruciati vivi avrebbe preferito. Non solo un’ipotesi di minore sofferenza, ma anche un esser diseguali davanti alla morte che assegna ai bassi ranghi l’infamia fino all’ultimo respiro. I combattenti della Guerra dei Trent’anni sapevano bene quanto tremende fossero le impiccagioni di massa. Il primo conflitto su scala europea che la storia ricordi, utilizzava il pretesto religioso per sperimentare anche sui civili ogni forma di crudeltà. Il grande incisore francese Jacques Callot, denunciò in diciotto tavole quanto fosse estrema la sua epoca storica e come quella che Foucault intravvederà nell’asimmetria di fronte alla pena di morte sia una realtà. Se in diciassette icone descriverà estreme azioni di supplizio, nell’ultima farà cogliere le contraddizioni del principe, che esalta i vincitori e distribuisce ricompense agli aristocratici ed a pochi fortunati ufficiali. In fondo chi ha voluto la guerra è la stessa figura che ha voluto la condanna a morte.
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Scheda del film
Regia
Adrian Shergold
Titolo originale
Pierrepoint: The Last Hangman
Altri titoli
Pierrepoint
Durata
90 minuti
Genere
Drammatico
Data di uscita
2005
Dettagli dell’opera
Titolo
Le miserie della guerra
Tavola numero 11 – L’impiccagione
Autore
Jacques Callot
Tecnica
Acquaforte su carta
Realizzata nel
1633
Ubicazione