I sottoproletari
Chi sono i veri colpevoli nell’annosa lotta tra ricchi e poveri? Talvolta non è possibile individuarli in modo evidente.
Chi si imbatte in Parasite trova un profondo riferimento al pensiero antico. I motivi sono da ricercarsi in un finale da tragedia greca ma anche nel concetto di limite. Tutti i personaggi peccano di hybris. Infatti, la linea nera che è sui loro occhi nelle locandine probabilmente rappresenta proprio questo confine che viene valicato.
Non di meno, il sottosuolo, l’artificiale caverna del sottoscala della villa, la risalita verso la luce o la scelta di vivere nascosti dagli affanni del mondo, sono implicite citazioni di Platone, Plotino, Epicuro e delle altre filosofie dell’età ellenistica. Ma c’è dell’altro che si disvela gradualmente nell’intreccio narrativo. La vicenda coinvolge inizialmente due giovani fratelli Kim, Ki-woo e Ki-jeong, s’infiltrano con l’illecito nella villa dei loro ricchi datori di lavoro. Diventeranno tutor di lingua inglese e psicoterapeuta attraverso l’arte, dopo le buone referenze lasciate dal loro predecessore ed amico di Ki-woo.
Per farlo stampano false lauree e titoli inesistenti, vantano interpretazioni psicologiche e “arterapiche” di quadri dipinti dal piccolo di famiglia (che tra il serio ed il faceto dice di vedere un fantasma), sfruttano l’innegabile appeal che può avere un docente part time d’inglese per avere una relazione con la sorella maggiore Da-hye, raccontano una caterva di bugie sulla governante per farla licenziare e per introdurre la propria madre, anche a costo di scatenare nella ex domina uno shock anafilattico. Oramai la fiducia è totale. Specie della padrona di casa, la signora Park. L’assenza del capofamiglia, fonte del benessere economico e sempre fuori per lavoro, è una costante. Infiltrata la madre come nuova governante, i due fratelli possono trovare anche per il proprio padre un posto come autista del facoltoso proprietario della villa, sempre con espedienti che minano la moralità altrui. Sui sedili in pelle dell’auto guidata dal prossimo ex dipendente dei Park, Ki-jeong lascia le proprie mutandine dopo aver ricevuto un passaggio. Tutto lascia intuire un utilizzo non proprio corretto di quella Mercedes, nelle ore in cui non è un’auto di rappresentanza. Tutto questo mentre l’ennesimo lavoro onesto offerto alla famiglia Kim, piegare in modo adeguato i cartoni di un negozio che vende pizze d’asporto, viene denigrato e svolto volutamente male.
Fin qui tante colpe dei poveri e poche dei ricchi: soli, psicolabili, intrattabili, paranoici, viziati, ma apparentemente moralmente ed intellettualmente onesti. Finché l’ennesimo colpo di scena. Mentre stanno bivaccando, i quattro parassiti non possono prevedere che il nubifragio avrebbe fatto rincasare con giorni d’anticipo i legittimi proprietari dal camping estivo. Così nascondono i resti di cibo e superalcolici sotto gli ignari coniugi che stanno trascorrendo la notte in taverna, per sorvegliare il figlio che ha preferito un tepee da Sioux in giardino al caldo degli interni. Dopo aver amoreggiato, il nostro integerrimo imprenditore esprime un giudizio sul suo autista: non è mai tracotante a parole, ma i suoi abiti parlano chiaramente: hanno un cattivo odore, di quello dei sobborghi, di quelle persone che prendono i mezzi di trasporto pubblici, stesso puzzo che sente, stranamente in quel momento e che anche cerca sui propri abiti nella scena successiva e sotto il ripiano del sofà.
Poco importerà ai Kim di versare sangue umano: anche se scoperti e minacciati dalla ex governante in un modo grottesco (far partire un video in un programma interattivo di chat dove il loro gioco sarebbe stato smascherato), i nostri sottoproletari utilizzano la forza e la violenza per zittire la povera donna in più frangenti, fino a malmenarla ed ucciderla, assieme al di lei marito Geun-sae, occultatosi nei piani ipogei della cantina e nutrito in segreto per anni con gli avanzi della ricca mensa della villa.
Il bilancio è ora alla pari. Anche i borghesi si sono comportati da capitalisti contro i sottoproletari. Il diluvio porta non solo simbolicamente, ma anche fisicamente via tutto. Un’occasione per fare nuovi progetti, magari stavolta positivi, anche in funzione della logica che il filo di fiducia non si è rotto coi datori di lavoro e che essi non sospettano della parentela tra i quattro ospiti per ragioni professionali della loro dimora. Ma qui una frase ulteriormente paradigmatica del capofamiglia sottoproletario: mai fare piani, mai programmare nulla. Se fai dei piani, questi possono fallire, se non ne fai affatto, non c’è rischio di fallimento.
Tornare a vivere alla giornata? Cercare di rubare a chi offre lavoro? Certo, ma non solo. Una sorta di giustizia sociale va compiuta, magari anche in un modo folle ed imprevedibile, come quello di un rivoluzionario messicano. E così il party in giardino per il piccolo di casa, cui tutti i Kim sono stati invitati, ha un epilogo tragico. Il marito della governante, Geun-sae, è ancora vivo. Afferra un coltello da cucina ed uccide Ki-jeong, trafiggendola al petto. Il fantasma esiste davvero. Ed allora il piccolo Da-song ha un trauma così forte da esser preda di un attacco epilettico. Ki-taek non regge l’indifferenza del ricco signor Park alla morte di Ki-jeong, di cui ignora ancora che Ki-taek sia il padre, ed alla nausea verso il proprio presunto olezzo emanato dal portachiavi. Altro che portare il bambino in ospedale. Ora ucciderlo con un coltello mette di nuovo il conto in pari tra borghesia e sottoproletariato.
Ma allora qual è il vero leitmotiv filosofico di Parasite? Di sicuro è proprio la disamina del sottoproletariato che è rappresentata in modo forte. La grande abilità del regista consiste nel non differenziare le responsabilità dell’alta borghesia come quelle degli abitanti dei sobborghi. Nessuno è innocente, colpevole o senza macchia ed i continui colpi di scena presenti nelle alterne vicende di due famiglie, che s’incrociano partendo dalla loro asimmetria economica, sono notevoli. Ma la novità è proprio questa. La descrizione del sottoproletariato con le medesime analisi di Marx. Le analisi marxiane non sono mai state tenere col sottoproletariato. Il termine letterale è Lumpenproletariat, ovvero “proletariato cencioso, degli stracci”. Si tratta di persone che vivono di espedienti, che non hanno coscienza di classe, come la chiama Marx, e che quindi non hanno consapevolezza della loro situazione né voglia o volontà di organizzarsi sindacalmente e politicamente per risollevarsi. Il loro intento è la mera sopravvivenza, il loro sostentamento, la frode e l’illecito. La famiglia dei sobborghi di Seul è proprio questo e non a caso Marx legge nella società capitalistica, nelle grandi città e nei quartieri ghetto il terreno fertile per tale comunità. In Parasite troviamo la stessa disamina: non è possibile sbilanciare totalmente le colpe di questo status quo né verso la borghesia né verso il sottoproletariato stesso, giacché la prima ha reso possibile le genesi del secondo e quest’ultimo, anche se con esplicite occasioni di riscatto, non fa altro che perdurare nella negatività delle proprie azioni.
Parerga e Paralipomena
I proletari e gli slums
Baraccopoli, bidonville, quartieri dormitorio, favelas. Sinonimi di luoghi dove la compresenza di più persone nello stesso luogo genera quasi fisiologicamente per Marx, delinquenza. Ma vi sono anche tante famiglie che vivono questa situazione di disagio economico che scelgono una vita dignitosa ed onesta. Sono loro i veri proletari. Il termine nella filosofia marxiana ha dunque una doppia declinazione. Da un lato rispetto al concetto di proprietà. I lavoratori di tutte le epoche storiche che hanno preceduto la rivoluzione industriale possedevano almeno parzialmente i beni derivati dalla propria fatica quotidiana. Persino uno schiavo aveva il raro privilegio di redimersi con la cultura. Chi oggi taglia legna, insacca carbone, forgia metallo, cuce tomaie è invece costretto a dover riacquistare ciò che precedentemente aveva egli stesso prodotto. La sua unica certezza di possesso? I propri figli, da cui il termine proletario. La seconda accezione che Marx propone per il proletariato è di tipo morale. I nuovi poveri sono capaci di gesti di altruismo ben più elevati dei ricchi, e le loro scelte se non sconfinanti nel sottoproletariato sono di solidarietà reciproca. Ernest Stafford Carlos vide realmente operare gli scout negli slums londinesi. Una madre vedova di un lavoratore morto senza garanzie assicurative, dei figli, uno di questi gravemente ammalato sono la testimonianza, secondo Marx, di una filantropia che può solo venire dal basso.
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Scheda del film
Regia
Bong Joon Ho
Titolo originale
Gisaengchung
Parasite
Durata
131 minuti
Genere
Drammatico
Data di uscita
7 Novembre 2019
Dettagli dell’opera
Titolo
Good work in a London Slum
Autore
Ernest Stafford Carlos
Tecnica
Olio su tela
Realizzata nel
1913
Ubicazione