La volontà di vivere
La tentazione di mollare e di cedere all’ineluttabilità del destino si scontra con la ricerca della libertà e dell’autodeterminazione. Il dilemma è irrisolvibile al suo interno, forse perché questo è solo uno stratagemma per far sopravvivere la vita.
La vita di Henri Charrière, è sicuramente quella di un uomo disonesto. Fa lo scassinatore ed è soprannominato Papillon per via di un tatuaggio a forma di farfalla sul petto. Non è un santo, ma l’accusa di aver assassinato un protettore di prostitute è infondata. Lo aspetta una condanna severissima: siamo nel 1933 ed il sistema penale prevede la carcerazione a vita nella Guyana francese. Il discorso che lo attende all’imbarco è agghiacciante: scordatevi della vostra madrepatria, siete degli indesiderati e non tornerete mai più qui.
A questo punto è di fronte ad un bivio. Una prima scelta è quella della rassegnazione. In fondo in un altro continente si potrà comunque vivere e lavorare, anche se in severe condizioni di detenzione. Non di meno ci si potrebbe aggrappare a sentimenti consolatori: una donna che ci attende speranzosa, un compagno di sventura che diventa un amico e, perché no, anche la prospettiva di un’evasione e del ritorno alla libertà potrebbero essere un antidoto alla rovinosa situazione. Esiste una possibilità difficile da valutare ma che rappresenta una risposta radicale ad ogni atteggiamento di fronte al dolore: la volontà di vivere di Schopenhauer. Più le vicende proseguono, più Papillon incarna questo principio metafisico, del quale ogni cosa del mondo sarebbe intrisa e dalla quale è impossibile liberarsi finché se ne fa il gioco. Come la si asseconda? Muovendosi in un’ottica di sopravvivenza, poiché la permanenza della vita, secondo Schopenhauer ne Il mondo come volontà e rappresentazione, significa la permanenza del dolore. Papillon se ne accorge quando prende le difese del falsario Louis Dega. L’accordo di proteggerlo per ricevere denaro in cambio che finanzi una possibile fuga, si trasforma in un’amicizia. Progressivamente, i due entrano in confidenza: l’amore spingerebbe Dega a voler tornare in Francia. Lo aspetta una moglie fedele ed attenta alla revisione del processo che in realtà si legherà sentimentalmente al suo avvocato. Dunque l’amore non è che una bugia, un falso lenimento. Papillon sperimenta che il proprio corpo può diventare uno strumento della volontà di vivere: custodia nella più profonda intimità di banconote arrotolate o mezzo per picchiare e colpire gli aggressori del complice Louis. Tutto questo accade nella stiva della nave che li porterà in Sudamerica. La fiducia nel genere umano crolla davanti ai tentativi di evasione finiti male: Papillon e Dega incontrano finti complici e suore delatrici come dei sofferenti lebbrosi su di un’isola, apparentemente generosi, ma solo inclini alla solidarietà poiché non respinti per il loro orrido aspetto. Ma l’impersonificazione in Papillon della volontà di vivere si coglie nel momento degli anni di isolamento, punizione esemplare per chi tenta di scappare. Essi vengono maggiorati in termini di tempo e da una situazione di progressivo inasprimento: oscurità e razioni sempre minori di cibo.
Papillon mangerà tutto quello che gli daranno, persino gli insetti, resisterà alla mancanza di spazio contando i passi per non impazzire e facendo i piegamenti sulle braccia per non perdere vigore fisico e tono muscolare. Amicizia, solidarietà e lealtà? La noce di cocco che Dega gli manda periodicamente, finché non sarà scoperto l’illecito traffico di cibo, nutre e dà forza a Papillon, unitamente al conforto del messaggio scritto intriso di rincuoranti parole. Per Schopenhauer tutto questo è solo l’ennesimo modo per far sopravvivere la vita e dunque il dolore sul pianeta. Tra il sogno ed il delirio, Papillon immagina di essere vestito elegantemente nel deserto. Come in un improvviso miraggio si palesano dodici giurati ed un severo magistrato.
L’accusa? Non già aver ucciso. Le sue mani non sono sporche di sangue. Il suo delitto è il più grande che possa essere commesso dal genere umano: aver sprecato la propria vita. Papillon stavolta è reo confesso: la pena sentenziata è la morte, ma sappiamo bene quanto quest’uomo, ora malridotto nel fisico e quasi senza senno, voglia continuare a vivere.
Il suo periodo di isolamento è stato scontato ancora una volta. Viene quindi trasferito nella remota isola del Diavolo dove si riunisce a Dega, che da tempo ha rinunciato a ogni speranza di essere rilasciato. Sembrerebbero diametralmente opposti nel fisico, nell’istruzione, nella forma mentis, nelle scelte relative alla dura condanna cui sono stati sottoposti. Papillon più rude ed esperto di vita, uomo di strada amante delle donne vuole azzardare l’ennesima fuga. Dega scaltro, colto ed attento ora si dedica all’allevamento dei maiali ed alla coltivazione degli ortaggi. In realtà dal punto di vista di Schopenhauer non sono che due manifestazioni diverse delle strategie della volontà di vivere. Da un’alta scogliera, Papillon osserva una piccola insenatura dove scopre che le onde sono abbastanza potenti da portare un uomo al largo e sulla vicina terraferma. Papillon esorta Dega a unirsi a lui: basta stare attenti al periodico infrangersi delle onde e lanciarsi al momento propizio. Così fabbricano due grossi galleggianti con noci di cocco insaccate. Mentre si trovano sul lato della scogliera, Dega decide di non fuggire e implora Papillon di non tuffarsi verso morte sicura. Questi abbraccia Dega e poi si lancia dalla scogliera.
Le ultime parole di Papillon? Idiomatico inno alla volontà come volontà di vivere di Schopenhauer “Maledetti bastardi, sono ancora vivo!”
PARERGA E PARALIPOMENA
Vivo o morto
Quando un uomo procura quello che si chiamerebbe con un gergo arcaico “un danno alla salute pubblica” egli passa dall’essere un potenziale nemico privato a diventare un comune oggetto del desiderio di una sua eliminazione. Tuttora si ricorre alla logica di offrire una taglia a coloro i quali forniranno informazioni su di un public enemy. In passato, la formula “vivo o morto” tuonava come un monito anche alla reale pericolosità di quel malvagio essere. Liberarsene e disfarsene era necessario. La riflessione possibile è che il suo essere vivo o morto contava ben poco, l’importante era la sua eliminazione. Far scomparire qualcuno equivale all’indistinzione tra la sua permanenza in vita e la sua morte. Gli antichi conoscevano bene la pratica dell’esilio. La condanna a morte sarebbe stata troppo severa, troppo dura, magari avrebbe anche potenzialmente trasformato in un martire un criminale, al punto tale da poter spingere i giovani ad emularlo. Cacciare via per sempre il mostro funziona di più, magari relegarlo su di un’isola deserta, confinarlo in un remoto continente è la scelta migliore. Che sia l’ostracismo degli Ateniesi, la deportatio in insulam dei Romani o l’Australia degli Inglesi e la Guyana dei Francesi non fa la differenza: mandare lontano per sempre un malvivente è una soluzione gradita a tutti. Esiste un ciclo pittorico allusivo all’indifferenza tra vita e morte prodotto dal pittore svizzero Arnold Böcklin. Si tratta di una serie di opere con il tema delle isole, di cui le rappresentazioni più note sono quelle de l’isola dei morti. Pareti spesse, cimiteri su di un breve spazio di terraferma a rammentare il destino dell’esistenza terrena. Questa è la fine che ha realmente fatto persino colui il quale riteneva di essere il più grande tra i suoi contemporanei: Napoleone Bonaparte, morto in esilio sull’isola di Sant’Elena. Ma è sintomatico quanto rappresentato nel quadro denominato l’isola dei vivi. Fuori dal mondo della ragione, l’immaginazione può simbolicamente trovare nell’isolamento un luogo felice dove non esiste dolore. In fondo quella che Tommaso Moro chiamava societas perfecta è ambientato proprio sull’isola di Utopia.
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Scheda del film
Regia
Franklin J. Schaffner
Titolo originale
Papillon
Durata
148 minuti
Genere
Avventura, drammatico, biografico
Data di uscita
1973
Dettagli dell’opera
Titolo
L’isola dei vivi
Autore
Arnold Böcklin
Tecnica
Olio su legno di mogano
Realizzata nel
1888
Ubicazione