Lavoro e alienazione in Marx
Lavorare dovrebbe essere motivo non solo di sostentamento, ma anche di tangibile soddisfazione. Quando subentrano la povertà, la monotonia e la disumanizzazione, ogni impiego diventa un tormento.
Giovanni, per gli amici Nino, è uno stimato cameriere di un rinomato ristorante in Svizzera. Tramite il suo impegno è riuscito a farsi apprezzare. Il suo tedesco lascia ancora un po’ a desiderare e non sa ancora sbucciare le arance in modo coreografico, ma poco importa.
Tuttavia, in quel Paese non è possibile essere onesti nel lavoro e presentare vizi pubblici. Una foto lo immortala mentre sta urinando su di un muro, con una donna che gli dà le spalle. Viene espulso, e non gli resta che la scelta della clandestinità. L’unica persona che gli dà conforto è Elena, un’esule greca che è fuggita dalla dittatura militare. Ma forse c’è un’ultima speranza: potrebbe diventare il maggiordomo di un miliardario italiano, conosciuto ai tempi del suo lavoro nel settore della ristorazione. Il riccone, in realtà è fuggito in Svizzera per non essere accusato di bancarotta fraudolenta e si toglierà la vita, portando via con sé ogni possibile riscatto, assieme ai pochi sudati risparmi di Nino. Ora la narrazione analizza la situazione del senso d’insoddisfazione legato all’universo del lavoro che, come sosterrebbe Marx, è tipica di tutti gli uomini che subiscono la dura condizione dell’alienazione. Se nel Manifesto del partito comunista del 1848 era emerso in modo evidente che l’uomo è l’unico animale che per vivere è costretto a lavorare, nel Capitale si spiegano gli effetti nefasti di un’attività poco soddisfacente. Ma perché Nino è l’esempio delle motivazioni per cui si può parlare di alienazione? Nino è alienato nel bene che produce o nel servizio che eroga.
Vive in una baracca con dei minatori, poi un uomo chiamato “il piemontese” gli offre un mortificante impiego e soggiorno con una famiglia che è marxianamente “diventata ciò che produce”. Incurvati dal luogo angusto in cui operano, vivono in una grande gabbia per polli, animali che allevano, mangiano ed uccidono in modo seriale, imitandone ogni comportamento.
Ma alienazione significa anche insoddisfazione per la propria situazione economicamente misera nonché comparazione con la società borghese e capitalista, che invece vive un’esistenza serena e gratificante, lontana dagli affanni dell’indigenza. Così Nino prova a diventare svizzero vestendo nuovi abiti, tingendosi baffi e capelli, frequentando luoghi ameni della natura come i parchi e mostrando falsa cordialità al prossimo.
Questo gioco non reggerà, e si trasformerà in una mortificazione. Nino è in una birreria e dopo tanti insulti alla sua nazione d’origine, non solo il suo orgoglio patriottico ma anche la sua dignità di essere umano lo portano ad esultare per un goal della nazionale italiana di calcio, cui segue l’immediata reazione dei presenti. Dopo aver rotto uno specchio con una testata, il simbolo del rifiuto di quella condizione di “finto biondo” che non può permettersi lusso e benessere, viene prima invitato ad andare all’ospedale e poi lanciato fuori dal locale tra cumuli di rifiuti. Ora la polizia di Zurigo gli dà un Diktat: passare tassativamente e definitivamente la frontiera. Nino appare alleggerito: quegli stessi connazionali, sfortunati ed alienati proletari come lui, forse ora avranno preso consapevolezza della loro condizione. Nulla però è mutato: le baracche della miniera, l’enorme gabbia degli “uomini pollo” ed i passeggeri di quel treno sono la stessa compagine di uomini vinti dalla miseria. Forse sarà meglio tirare il freno di emergenza e tornare indietro.
In fondo, pochi minuti prima Elena gli aveva portato sul binario un nuovo permesso di soggiorno con un chiaro messaggio: Italia o Svizzera, il problema non cambia, bisogna scegliere di vivere e lottare, senza arrendersi mai, l’invito che Marx estese a tutti i proletari lavorativamente alienati.
Parerga e Paralipomena
Fino all’ultimo
Le storie dell’emigrazione italiana all’estero hanno un punto di partenza talvolta comune: il porto di Napoli, per la precisione il molo dell’Immacolatella. Qui venivano impegnati gli ultimi risparmi per l’acquisto di un biglietto in terza classe alla ricerca di fortuna verso il Nuovo Mondo. Magari l’America sarebbe stata altrettanto spietata, ma la speranza e la volontà di non arrendersi erano superiori ad ogni negatività. Forse era il caso non solo di piangersi addosso, ma di festeggiare. Quel viaggio durava non meno di quindici giorni, ed era il prioritario mettersi in forze con un ultimo pasto, consumato nei ristoranti di fronte al mare con le proprie famiglie. Il pittore livornese Angelo Tommasi conosceva bene questa realtà. Era stato anche lui per diverso tempo un emigrante, anche se aveva scelto l’Argentina come luogo per lavorare ed esporre le sue opere. Fece fortuna proprio con un’intensa attività artistica a Buenos Aires. Nel suo più noto lavoro, Gli emigranti, s’intravedono contadini, artigiani, mercanti, braccianti, donne in stato interessante. Li avrà senz’altro scorti non a Napoli, ma a Genova, la location deputata ai viaggi verso l’America Meridionale con un’usanza che unisce i due grandi porti dell’emigrazione italiana: un enorme gomitolo. Lo spago era legato al polso di chi stava partendo e si srotolava progressivamente fino a rompersi: un modo per sentire le dita dei propri cari fino all’ultimo, talvolta con la consapevolezza che non avrebbero fatto ritorno in Italia.
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Scheda del film

Regia
Franco Brusati
Titolo originale
Pane e cioccolata
Durata
110 minuti
Genere
Commedia, drammatico
Data di uscita
1974
Dettagli dell’opera
Titolo
Gli emigranti
Autore
Angiolo Tommasi
Tecnica
Olio su tela
Realizzata nel
1896
Ubicazione