La gioventù d’acciaio nei Discorsi di Fichte
Milioni di giovani sono partiti per la guerra mossi da profonde radici ideologiche. Il tradizionale pacifismo e l’amore per la vita sono stati soppiantati da un convinto nazionalismo, le cui radici risalgono ai primi anni dell’Ottocento.
Ultimo giorno di scuola. Il professor Kantorek sta discutendo con i suoi maturandi. Siamo nel 1916 e le lezioni di questo docente sono intrise di un nazionalismo profondo. La patria che quei diciottenni saranno chiamati a difendere è la stessa di Beethoven, di Schiller, di Goethe, di un popolo dedito al progresso ed alla cultura. I suoi alunni sono la “gioventù d’acciaio” e sono responsabili del buon esito di un destino che dovrà essere compiuto. Questa profezia richiede impegno ed attenzione: l’atteggiamento del distratto Paul Baumer non è coerente con questi insegnamenti.
Non è bello che si dedichi al disegno e che voglia immortalare sul suo quaderno un passerotto posatosi sul davanzale della finestra della sua aula. Scrivere poesie e fare disegnini non lo renderà un uomo. Ora che Paul è giunto al diploma ha dei doveri: un altro volontario? Prima ancora di ricevere la cartolina che lo spedirà in guerra, andrà ad arruolarsi con cinque compagni di classe, da quel momento in poi commilitoni. Da cosa deriva questo desiderio di combattere per la superiorità della nazione tedesca? Il retaggio è quello di un’opera che non è di sola filosofia politica, ma che nelle intuizioni del suo autore doveva possedere un carattere essenzialistico, cioè definire cosa significhi essere tedesco. Nell’inverno tra il 1807 ed il 1808, deluso dall’occupazione napoleonica della Prussia, Fichte scrive i Discorsi alla nazione tedesca, una raccolta di quattordici sue lezioni sulla superiorità culturale del suo popolo. A cosa bisognerà educare gli allievi nelle scuole? Al rigore ed al timore degli insegnamenti del maestro e ad una comune identità. L’unica lingua non contaminata con altri idiomi del continente europeo? Il tedesco. Ma non solo. I Tedeschi sono anche l’unico popolo che ha lottato contro l’oppressione religiosa con Lutero o reso grande la letteratura, la storia dell’arte, la musica. L’epoca che i giovani stanno vivendo nel primo decennio dell’Ottocento dovrà essere superata e condurrà verso una Grande Germania, uno Stato-nazione simile al Sacro Romano Impero per estensione geopolitica. Non ci meraviglia, dunque, che poco più di cent’anni dopo chi si arruola come volontario sia stato educato su questi principi: una superiorità culturale tedesca che dovrà sfociare in una vittoria militare. I propositi di matrice fichtiana sembrano essere i migliori, ma la delusione di Paul è progressiva. Anzitutto lo colpisce il senso di abbandono che quelle giovani vite patiscono. Si fa presto a passare dai banchi al letto di un ospedale: Franz Kemmerich e stato ferito e sopravviverà solo poche ore.
Gli hanno amputato la gamba destra e rubato l’orologio. Il giorno dopo morirà proprio sotto gli occhi di Paul. Nel giro di due anni al fronte arriveranno anche i sedicenni: lo scenario è tristissimo poiché giungono tanti ragazzi per quante bare di legno vengono scaricate dai camion. In secondo luogo, Paul diventa incline alla mancanza di rispetto per i superiori. La prima esperienza negativa è quella col caporale Himmelstoss al campo di addestramento. Vendicativo, cattivo, abusa del proprio potere finché non è spedito in prima linea per aver esagerato col figlio di un pezzo grosso. L’apice del disprezzo è verso il Kaiser in persona, in visita alle truppe. Come poterne avere stima, se sta premiando con la croce di ferro proprio Himmelstoss, un vigliacco che si era imboscato durante un assalto alla trincea francese?
La gioventù d’acciaio è oramai una bugia, proprio come i termini patria, nazione e destino tanto cari a Fichte. Tornato a casa per un breve periodo di convalescenza, Paul riferisce al suo ex docente Kantorek che al fronte ha visto solo giovani che non volevano andare al macello e non ottusi. Anche il mito di una superiorità della nazione tedesca è crollato, e nel modo più duro.
L’apice della disillusione trova la sua espressione durante un attacco. Paul resta al coperto in una voragine scavata da una granata. Un soldato francese ha la stessa idea: non resta che colpirlo a sorpresa con due pugnalate. L’agonia di quel nemico dura ore e prevale su ogni istinto omicida appreso per sopravvivere. Paul ne scopre gli affetti, il volto, cerca di curarlo e di medicarlo con delle bende, ma non c’è più nulla da fare. Avrebbero potuto essere amici, fratelli, ma ora è tutto finito. Forse un amico in trincea c’è davvero: l’esperto Kat, specialista nel trovare cibo e nell’insegnare come difendersi con vanga e baionetta, ma una ferita alla gamba non gli darà scampo. Dopo oltre due anni, Paul è ora un veterano. Decide di scrivere una lettera ad Albert Kropp, l’unico sopravvissuto assieme a lui su venti soldati dello stesso plotone.
La passione per il disegno gli costerà cara: sporgersi oltre i sacchetti di sabbia per ammirare un uccellino su di un albero spoglio lo porta a mostrare la testa ad un cecchino. La guerra finirà esattamente un mese dopo.
PARERGA E PARALIPOMENA
Saetta previsa
Per i soldati che hanno combattuto la Prima Guerra mondiale, la maggiore forma di disperazione è stata la percezione di andare incontro ad una morte sicura o quantomeno ad un’invalidità permanente. Le parole dell’autore di Niente di nuovo sul fronte occidentale, Eric Maria Remarque, sono estremamente indicative: essere in presenza perenne della morte non può che annullare ogni forma di speranza. Nel primo conflitto combattuto per mare, per cielo e per terra, è praticamente impossibile prevedere da quale elemento possa arrivare la morte. L’imponderabilità della fine e dell’ultimo respiro rende ancora più duro il dolore correlato. Questo aspetto era ben noto a Dante che nel diciassettesimo Canto del Paradiso scriveva Saetta previsa vien più lenta. Ogni tipo di dolore, di castigo, di negatività se prevedibile giunge lenito. Ecco che il non poter fare alcuna previsione sul fattore che causerà la propria fine non fa che amplificare il male connesso. Otto Dix al fronte c’era stato davvero. Non gli bastò semplicemente rappresentare gli orrori della guerra in un ciclo di figure tristi ed in bianco e nero. Doveva dipingere qualcosa di allusivo al Medioevo. In quel periodo, la tradizione agiografica e votiva aveva portato ad immaginare dei trittici dipinti su legno, per rappresentare come un’intera comunità aveva a cuore le figure più iconiche del Cristianesimo. Anche nel periodo della Repubblica di Weimar era possibile lavorare su di un trittico, ma stavolta per individuare personaggi che avevano perso la speranza, in una maniera indotta dalla guerra. Un reduce oramai senza gambe, delle ballerine in un lusso vuoto e senza prospettive, delle prostitute altezzose, in attesa di un qualsivoglia cliente ed in uno stato d’animo di non curanza assoluta. Il messaggio più forte di Otto Dix? In fondo tutti i protagonisti del trittico vivono la stessa imprevedibilità dei soldati di fronte alla causa della loro morte. Lo storpio e reduce non sa se gli faranno l’elemosina, le ballerine non sono a conoscenza del gradimento del pubblico e le prostitute non hanno contezza chi sarà il prossimo cliente.
Potrebbero interessarti anche…
Seguici su Facebook
Scheda del film
Regia
Delbert Mann
Titolo originale
All Quiet on the Western Front
Altri titoli
Niente di nuovo sul fronte occidentale
Durata
Regno Unito: 124 minuti
Stati Uniti: 150 minuti
Italia (DVD): 128 minuti
Genere
Guerra, drammatico
Data di uscita
1979
Dettagli dell’opera
Titolo
L’anima della rosa
Autore
John William Waterhouse
Tecnica
Tecnica mista su legno
Realizzata nel
1903
Ubicazione