La vita religiosa in Kierkegaard
Competere nello sport ed avere fede possono essere due atteggiamenti uniti dalla conciliazione di un profondo dovere. Questo va vissuto come pratica interiore e non esteriore per raggiungere una meta definitiva.
Un’immagine dello sport che viene direttamente dalle Olimpiadi del 1924 di Parigi. A partecipare per la nazionale d’atletica leggera britannica sono solo i dilettanti, che sono anche studenti di Cambridge. Potremmo immaginare che più che mai la vicenda riguardi una sorta di élite culturale trasferitasi su di una pista ellittica. In fondo nella squadra c’è anche qualche nobile: Lord Andrew Lindsay si allena facendo porre dal suo maggiordomo delle coppe colme di champagne sugli ostacoli.
Poco importa che sia un personaggio immaginario. Solo, nella sua enorme tenuta, deve confrontarsi con la necessità di evitare che i bicchieri cadano unitamente al loro contenuto. Ma questa è la storia di una profonda amicizia che lega tutti i componenti del team, in un’epoca in cui l’impegno e la dedizione sono tangibilmente visibili in un comune allenamento in riva al mare, overture iniziale e finale del film.
A rendere filosoficamente profonda la vicenda ci sono i due protagonisti: Harold Abrahams ed Eric Liddell.
Il primo è un inglese che aveva fallito nei Giochi di Anversa del 1920. Parte come un outsider e tra mille polemiche. Figlio di un benestante ebreo, vive la dimensione della velocità come un riscatto dalla percezione che l’Università di Cambridge non gradisca la sua persona. In fondo della sua fede gli importa poco, ed anche di Liddell, che parte come stella tra gli sprinter e coi favori di tutti i pronostici. Tra i tanti motivi di dissenso vi è anche il fatto che si è fatto allenare da un coach professionista, Sam Mussabini, al quale è vietato l’ingresso nello stadio olimpico. La sua medaglia d’oro metterà tutti d’accordo ed i sorrisi e l’entusiasmo che lo stesso LIddell gli trasmette, da spettatore e da partner nell’accompagnarlo verso la gloria, sono sinceri. Harold è un ebreo non intriso profondamente della sua religiosità: per lui non sarebbe stato un problema gareggiare di sabato, il giorno da dedicare al riposo nella sua fede. Eric Liddell è invece scozzese, è un cristiano devoto e gioca ad ottimi livelli anche a rugby: è perfettamente inserito nel contesto accademico ed è una sorta di eroe, popolare, noto in tutto il Regno Unito. In lui ritroviamo pienamente quanto Kierkegaard propone nel paradigma della sua vita religiosa in “Timore e tremore”. Eric si rifiuterà di correre di domenica: bisogna santificare quella festa. In quel giorno ci sono ben tre gare, soprattutto quella più nota dei 100 metri. Ma un compagno di squadra gli permetterà di poter correre in un altro giorno le qualificazioni e la finale dei 400 metri gli consentirà di vincere l’oro e di stabilire il record del mondo del giro di pista. Apparentemente questa appare come un’ottusa ed ostinata sottomissione a Dio. Ma Kierkegaard ha ampiamente chiarito che il “dovere assoluto verso la fede” non è un gettarsi a capofitto nel rispetto di regole formali, ma un vissuto interiore. A Dio ci si affida come ad un padre premuroso e del quale, pur non comprendendone il perché, si osservano le regole che ci impone, anche se vengono percepite come severe dai più. Esse ci consentono di vivere un’esistenza stabile, ma ovviamente non senza drammi e difficoltà. Dopo il suo tempo trionfale ed il primo posto, sotto una pioggia battente Eric Liddell pronuncia un discorso che ricalca perfettamente quanto Kierkegaard cerca di farci comprendere nella necessità di vivere la fede come dovere e dedizione.
Tutti erano lì per vedere chi avrebbe vinto: è stato lui.
Ma l’invito non è quello di essere semplici spettatori, ma di partecipare. La fede è come disputare una gara. Un compito arduo, che richiede concentrazione, volontà, forza di spirito. I suoi tifosi hanno esultato quando lui ha rotto il filo di lana, ma quanto dura questo entusiasmo? Tornati a casa magari abbiamo i nostri problemi quotidiani, e l’entusiasmo scema. Eric sostiene che non può offrire personalmente qualcosa di più duraturo. La formula per vincere la corsa non è sua, perché ognuno gareggia a modo proprio. Per arrivare in fondo occorre qualcosa che arriva da dentro. Ora l’atleta e predicatore cita Gesù: il Regno di Dio è dentro di voi, se mi cercate, mi troverete sempre. Ma la chiosa finale è kierkegaardiana: se vi affidate a Gesù, quello è il modo di correre. I vertici di Cambridge in fondo glielo avevano detto: si può glorificare Dio anche sbucciando una patata, ma tra correre e predicare, se Dio ha fatto veloce Eric, il primo dovere è quello di vincere le Olimpiadi di Parigi, il secondo di diventare un missionario, come del resto accadrà sino alla sua morte in Cina.
Parerga e Paralipomena
Lo scandalo
Tra gli scogli più ardui da superare per il raggiungimento di una dimensione di fede e di pace come pratica di vita c’è l’etica. Kierkegaard ce lo ha ricordato attraverso la sua ben nota di definizione di scandalo. Quando un evento va contro l’etica più diffusa di una comunità, esso è scandaloso. Più che mai oggi etica e fede sono di difficile conciliazione. Se l’ecologia e l’etologia ci richiedono il rispetto per l’ambiente e gli animali, il Cristianesimo non pone questi come problemi prioritari. Se l’eutanasia e la ricerca della possibilità di generare un bambino sono priorità per un individuo sofferente e per una coppia che si ama, la posizione del Magistero non è bioeticamente in linea con queste esigenze che vengono lette come pseudo scelte dell’individuo a fronte del diritto alla vita che non è nelle mani dell’uomo ma di Dio. Marc Chagall ebbe un problema molto simile con la sua famiglia. Fu una dura lotta per lui, rampollo di una famiglia ebraica bielorussa, contrastare i principi della Torah che vietano d’intraprendere la carriera artistica. Successivamente altri problemi tra diritto e religiosità: a San Pietroburgo dove era andato a studiare venne imprigionato per essere rimasto oltre l’orario consentito fuori dal ghetto. Sarà anche per questi motivi che Chagall venne affascinato ed interamente assorbito dal 1930 in poi dal lavoro d’illustratore della Bibbia e da una delle figure più note della produzione filosofica di Kierkegaard: Abramo. Nel suo noto Sacrificio d’Isacco la figura del patriarca è intrisa di rosso, il colore della rabbia, della violenza immotivata. Un urlo contro la mancata conciliazione di fede ed etica che lo avevano caratterizzato per una vita: in fondo il giovane Marc voleva solo dipingere e questo non avrebbe dovuto dare fastidio a nessuno, men che mai a Dio.
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Scheda del film

Regia
Hugh Hudson
Titolo originale
Chariots of Fire
Altri titoli
Momenti di gloria
Durata
123 minuti
Genere
Storico, sportivo, drammatico
Data di uscita
1981
Dettagli dell’opera
Titolo
Il sacrificio d’Isacco
Autore
Marc Chagall
Tecnica
Olio su tela
Realizzata nel
1966
Ubicazione