Dire sì alla vita
Una situazione estrema può portarci alla volontà di farla finita o di ricorrere all’eutanasia. Ma la speranza che ogni condizione umana possa essere dignitosa per poter vivere è dietro l’angolo.
Jean-Dominique ha 43 anni ed è un uomo brillante ed affermato. Lavora come redattore capo in una rivista di culto dell’universo femminile. Gli piace la vita, che sembra anche sorridergli. Separato dalla moglie, mentre è col figlio, al volante della sua auto decapottabile, viene colpito da un ictus.
Si sveglierà in un letto d’ospedale venti giorni dopo. La sua esistenza è segnata: ora sarà irreversibilmente affetto da una rara “sindrome locked-in”, una sorta di paralisi totale del corpo associata ad una lucidità cognitiva. L’unica eccezione riguarda la sua palpebra sinistra, ancora governabile a comando.
Con metodo e pazienza, le assistenti ospedaliere gli fanno prendere contatto per gradi con la sua situazione, ma appena vede il suo volto riflesso in uno specchio prova orrore per la sua fisicità. Dovrà familiarizzare con la sedia a rotelle: potrà almeno prendere di nuovo contatto col mondo ed i suoi affetti. Ma lui che amava i piaceri e le donne non solo rappresentate su carta, fa fatica ad accettare questa menomazione. Il dramma è che non può parlarne con nessuno, ma forse un modo per comunicare a tutti il suo mondo interiore c’è: apprendere un sistema di codifica dei battiti delle sue ciglia.
L’impegno è forte e la sua prima frase trascritta sembrerebbe precedere di pochi istanti i titoli di coda: voglio morire! Probabilmente questo pensiero lo avrà fatto inizialmente anche Dostoevskij, dopo che la sua pena capitale venne commutata in anni di lavori forzati. Forse lo stesso Nietzsche avrà immaginato il medesimo scenario non appena aveva appreso che la sifilide lo avrebbe spento gradualmente. In realtà sia il grande scrittore russo che il filosofo tedesco hanno concluso che la vita non è né bella né brutta, ma va accettata come tale, con un deciso ed accorato “sì!”. La citazione tratta da “Delitto e castigo” è esemplificativa “Dove mai ho letto che un condannato a morte, un’ora prima di morire, diceva o pensava che, se gli fosse toccato vivere in qualche luogo altissimo, su uno scoglio, e su uno spiazzo così stretto da poterci posare soltanto i due piedi (avendo intorno a sé dei precipizi, l’oceano, la tenebra eterna, un’eterna solitudine e una eterna tempesta), e rimanersene così, in un metro quadrato di spazio, tutta la vita, un migliaio d’anni, l’eternità, anche allora avrebbe preferito vivere che morir subito? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere in qualunque modo, ma vivere!”. Ma questa conclusione è ancora prematura: se ne avesse la forza Jean-Dominique si toglierebbe la vita e sta chiedendo un suicidio assistito a chi lo cura. Gradualmente la crisalide d’acciaio dello scafandro libera la farfalla che è in lui: un termine di paragone felice per chi ora può usare l’immaginazione.
Quando la rottura di un vaso cerebrale lo colpì, il suo stereo emanava i gorgheggi della melodiosa voce di Charles Trenet: il mare ora è un posto che può visitare e descrivere, magari mentre pensa di rotolarsi sul bagnasciuga con una bella ragazza, perché il cuore di un navigato seduttore ha più risorse di un fisico irrimediabilmente minato. Dopo diciotto mesi, lo scafandro e la farfalla fanno da titolo al suo libro, che gli viene mostrato con orgoglio nella sua stanza.
Jean-Dominique ha spiccato il volo chiederebbe di poter dire di sì alla vita. Purtroppo un arresto cardiaco, come conseguenza di una polmonite ospedaliera, lo porterà via per sempre, stavolta contro la sua volontà.
Parerga e Paralipomena
Stanco di veder morire
Ha assistito a delle anacronistiche esecuzioni capitali da parte dell’Inquisizione spagnola. Ha visto ogni tipo di efferatezza che la guerra potesse perpetrare. Ha immaginato padri che divorano figli nelle sue pinturas negras. Oramai sordo e privo di ogni interesse, Francisco Goya ha sentito la necessità di lasciare una sorta di testamento spirituale. Anzitutto il ciclo di ottantadue incisioni sui Disastri della guerra. Ogni forma di barbarie o atrocità trova, nelle rappresentazioni realistiche in bianco e nero, la volontà di fare del male al prossimo. Ma non è tutto. Il malgoverno francese della penisola iberica era noto, ed un uomo vecchio e malato poteva permettersi il lusso di vivere il confronto tra guerra e carestia in modo compresente alla sciagura di essere sudditi di Napoleone. Ma è ben noto un episodio biografico di Goya. Una sera, in osteria, pronunciò poche e sintomatiche parole: sono stanco di veder morire, un modo per votare alla vita tutta la sua produzione, per lasciare ai posteri l’ammonimento che quanto è successo non dovrà più accadere e che alla vita bisogna sempre rispondere con un accorato “sì!”, specie se in ballo ci sono i destini degli altri più che di noi stessi. La sintesi di tutti gli atteggiamenti negativi che rappresentano un ostacolo alla vita è nel dipinto Il 3 maggio 1808. La rabbia del popolo, lo sconforto e la resa di chi non ha più la forza di lottare, la vergogna e l’odio sono perfettamente riconoscibili nei protagonisti di questa fucilazione sommaria, ma ciascuno di questi riferimenti contribuisce a negare la vita, ad uccidere e vendicarsi in un eterno conflitto senza ritegno: Goya è sempre più stanco di assistere a questo diffuso senso di morte, e l’unica cosa viva che dipinge è il fuoco di quei moschetti.
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Scheda del film
Regia
Julian Schnabel
Titolo originale
Le scaphandre et le papillon
Altri titoli
Lo scafandro e la farfalla
Durata
112 minuti
Genere
Drammatico, biografico
Data di uscita
2007
Dettagli dell’opera
Titolo
Il 3 maggio 1808
Autore
Francisco Goya
Tecnica
Olio su tela
Realizzata nel
1814
Ubicazione