Il dispotismo della virtù
Siamo soliti immaginare che un atteggiamento rigoroso, onesto, virtuoso possa produrre serenità nella gestione della giustizia. Questo non sempre accade quando il sospetto s’introduce nel contesto sociale in cui opera il potere giudiziario.
Mariano Bonifazi è metodico. Si adatta a tutto. Ha un vecchio ciclomotore a due tempi per andare al lavoro. Lo hanno messo a fare il pubblico ministero in luogo putrido, pieno di calcinacci ed umidità. Mentre gli operai e gli uscieri lo disturbano tra migliaia di faldoni, la sede del tribunale di Roma è stata dislocata in una caserma.
Lorenzo Santenocito è alto, bello, ha il fisico di un discobolo, è sfacciato ed infedele. È un logorroico che padroneggia l’inglese, più che mai oggetto misterioso nei primi anni Settanta in Italia. Ha tutte le caratteristiche di un imprenditore corrotto. Ama le feste a bordo piscina, i sigari, i discorsi contorti, le mazzette, le raccomandazioni ed i favoritismi.
Il conflitto tra i due è evidente, sin da quando Mariano convoca forzosamente Lorenzo nel bel mezzo di un party in costume d’epoca romana antica.
Il primo è incorruttibile, il secondo cerca di corrompere subito l’antagonista.
Ma In nome del popolo italiano è un film che ha molto di più in serbo.
La domanda che bisogna porsi è un’altra: perché Mariano ritiene antipatico Lorenzo? Il magnate dell’edilizia incarna tutti i vizi di un’Italia che il nostro magistrato vorrebbe tanto più pulita, e c’è una scena che ci permette di comprende il significato filosofico del film. Lorenzo sta portando verso il mare Mariano. Sta tentando di ammorbidirlo, anche se ha confessato di aver generato un sistema di ecomostri e d’inquinamento delle acque del litorale laziale. Poi, non fa nemmeno mistero della sua passione per le donne. Mariano lo porta ad un trabocchetto mentre la pioggia sta per imperversare e solo lui ha con sé in modo previdente un ombrello: Lorenzo crede che il discorso su un lido della riviera romagnola dove i due sarebbero stati vicini d’ombrellone nell’infanzia, sia vero.
Una pesca come merenda, i capelli alla Coogan: Marianuccio, Marianino, ecco perché pensavo di conoscerti da sempre! Ma è ora che il giudice incarna i panni dell’incorruttibile: in fondo solo lui ha l’ombrello ed è attento a tutto. Quel lido sull’Adriatico non solo non è mai esistito, ma adesso che sono lì, in spiaggia e in inverno, nessuno li può sentire e può dire in privato cosa pensa del costruttore: è un uomo disgustoso e corrotto ed è un omicida, perché avrebbe ucciso la bella Silvana, colei che oggi chiameremmo una escort, pur di non far scoprire tale relazione.
Il finale del film è significativo. Mariano ha fatto incarcerare Lorenzo per omicidio e poi internare in un manicomio criminale. Poco importa che un diario della stessa Silvana scagioni totalmente l’imprenditore.
Un farmaco, prodotto solo in Germania, il Ruhenol, veniva preso a scopo autoterapeutico ed i segni di traumi sul corpo sono dovuti ad un incidente stradale occorso poco prima della morte. La ragazza non è stata né drogata né picchiata da nessuno e le sue ultime ore di vita sarebbero spiegate con tale dinamica. Mentre il nostro inquirente legge queste righe, l’Italia ha battuto l’Inghilterra in un’importante partita di calcio: Mariano vede Lorenzo nel volto e negli atti di decine di tifosi e teppisti, oltre che nei già citati vizi italici. È disgustato da tale immoralità ed invece di assolvere un colpevole di altri reati, ma non già di omicidio, getta il diario di Silvana tra le fiamme di un’automobile vandalizzata dai tifosi della nazionale. Un gesto di simbolica purificazione.
Lorenzo è l’incarnazione di Danton. È disonesto, corrotto, come il rivoluzionario grassoccio e con le pose retoriche esasperate. Danton aveva rubato con certezza, possedeva una casa ed un tesoro in Belgio, ma non aveva mai fatto uccidere di proposito nessuno. Come Santenocito accuserà di eccessivo zelo e di personalismi Bonifazi, anche Danton dirà lo stesso di Robespierre: sei un matto, non hai mai avuto una donna, non dormi di notte solo per il piacere di ritenerti pulito ed incorruttibile. Con coraggio, dirà addirittura al boia di mostrare la sua testa al popolo: ca vaudra le coup, ne varrà la pena. Per lui vale il motto giuridico che propagandava anche Kant nella sua Pace perpetua: Fiat iustitia, ne perat mundus;
Mariano è l’alter ego di Robespierre. Il suo è lo slogan dei fondamentalisti, degli ultras di una squadra di calcio, dei terroristi. Si può arrivare anche a praticare la violenza o ad essere percepiti come dei giustizieri sommari. Fiat iustitia, et perat mundus, la sentenza che piaceva ai cesaricidi, che è contenuta nelle Lettere di Robespierre, che è madre del dispotismo della virtù: l’ispirarsi ai più alti valori giustifica anche la logica che tutti siano ghigliottinati, persino il boia se è un nemico della virtù, della purezza dei valori.
Parerga e Paralipomena
Sic semper tyrannis
Che sia per mezzo del fendente di un pugnale o con un colpo di pistola, coloro i quali ritengono necessaria la morte di un despota hanno da sempre incarnato una sentenza: sic semper tyrannis! L’avrebbero urlata Bruto a Cesare, i monarcomachi del XVI e XVII secolo e J. W. Booth, assassino del presidente Lincoln. Uccidere sommariamente chi governa male appare come un atto di giustizia estrema, di virtù. L’altra faccia di ogni forma di virtuosismo è il terrore. Nelle Lezioni sulla filosofia della storia, Hegel sostiene che gli altri diventano giudicabili per mezzo della virtù ma non per quello che realmente fanno, ma per le loro intenzioni. Ecco perché nella Rivoluzione francese cadere in sospetto è molto più grave che essere colpevole come scriveva lo stesso Robespierre. L’esperienza estrema della libertà, la volontà di renderla assoluta, rende l’uomo capace di compiere delitti: il Terrore giacobino ha questa triste eredità secondo la quale uomini colpevoli o potenzialmente tali vengono messi sullo stesso piano proprio per un eccesso di libertà dichiarata. Ecco che allora Charles Landseer rappresenta in una tonalità di colore che solo i pittori inglesi sanno dare ai loro quadri la storia di Rosmunda, rapita e costretta a diventare sposa del re longobardo Alboino, all’epilogo della privazione della sua libertà. Costretta ad un forzoso matrimonio, sarebbe stata anche coinvolta in un rituale macabro: bere dal teschio del proprio padre, sconfitto ed ucciso anni prima da quello che ora era suo marito. Che sia stata complice o semplicemente che non abbia fatto ostacolo alla congiura che volle assassinare Alboino non ci è dato di saperlo. Quello che è probabile è che forse anche a lei sarà venuto spontaneo un sic semper tyrannis!
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Scheda del film
Regia
Dino Risi
Titolo originale
In nome del popolo italiano
Durata
99 minuti
Genere
Drammatico
Data di uscita
1971
Dettagli dell’opera
Titolo
L’assassinio di re Alboino
Autore
Charles Landseer
Tecnica
Olio su tela
Realizzata nel
1856
Ubicazione