Leopardi e il nichilismo
Dare alla sofferenza un nome è semplice se si parte dalle vicende personali. Tuttavia, quand’è individuata in un principio che prescinde dai singoli, la sua definizione non è semplicemente legata ad una prospettiva, ma all’impostazione metafisica che assume.
Desideroso di sapere, talentuoso nella matematica, nella letteratura, nella logica, nelle lingue antiche, indottrinato nella residenza paterna da ottimi maestri e dai libri di un’immensa biblioteca, Leopardi è l’enfant prodige che ogni padre vorrebbe. Tutta la vicenda narrata potrebbe riassumersi in una tradizionale visione di Giacomo dalla fanciullezza alla prima maturità, sino alla morte. Ma il discorso non è incentrato solo sui monologhi e sui dialoghi che lo vedono protagonista.
Definire una filosofia leopardiana è quanto di più semplice e complesso vi sia allo stesso tempo. La sua lettura più elementare è quella d’individuare una progressiva negatività nel mondo, giungendo alla conclusione che ogni essere vivente soffre disperatamente, senza potersi opporre alla Natura intesa come principio superiore e dominante. La complessità del pensiero deriva dal voler superare la definizione di “pessimista cosmico” che la tradizionale critica letteraria attribuisce a Giacomo Leopardi, sforzo interpretativo che non solo recentemente trova proseliti in molti critici ma che è possibile individuare in diversi momenti del film. Leopardi è a Napoli, ordina un gelato al limone di cui è ghiotto di fronte al teatro San Carlo. Parla entusiasta di Rossini e del primo atto di una sua opera lirica. Viene provocato: è di buon umore e magari può lavorare qualcosa di meno afflittivo. Un suo interlocutore ha letto da poco delle poesie inedite e pubblicate da un editore locale. Una produzione infelice, non in senso tecnico, ma morale. Non sarà anche ateo? No. Perché se il conte Giacomo suppone una divinità, essa è malefica e gode a tormentare gli uomini. Certo, è tanto, anzi assai pessimista come si dice in napoletano. La replica è secca.
Parole vuote: pessimismo e ottimismo non significano niente. Tutti si aspettavano un nuovo Manzoni, e invece sono loro a dover dimostrare che quel mondo è il migliore di quelli possibili come sosteneva Leibniz. La sua sofferenza deriva dalla deformità fisica? Cristo, Socrate, Silvio Pellico hanno sofferto tutti ma non sono stati mai pessimisti. Le sue opinioni non hanno nulla a che vedere con le sofferenze personali. Demolire i suoi ragionamenti più che accusare le sue malattie, ecco cosa dovrebbero fare i malpensanti. Ma le sue visite all’ombra del Vesuvio sono intervallate da un soggiorno a Roma a casa dello zio Carlo Antici, fratello della madre ed amico di vecchia data del padre Monaldo. Il dibattito è serrato. Giacomo farebbe bene a guardarsi da quel pericoloso amico, il libertino Antonio Ranieri. Addirittura, contro le idee della sua stessa famiglia, vicine alla Restaurazione ed alla morale cattolica, circola voce che sia stato accusato di essere un giacobino, un fiancheggiatore della rivoluzione. Infine, lo zio Carlo ammonisce che la parsimonia sembrerebbe essere una virtù che manca al nipote. L’assegno familiare è in buone mani, le sue, e presto gli sarà consegnato. Da queste invettive emerge un discorso incredibile di Leopardi, che non è nemmeno difensivo, ma una constatazione.
Sarebbe bene rassicurare il conte Monaldo sulla sua salute “Il mio organismo è talmente debole da non riuscire a sviluppare una malattia forte che lo possa ammazzare e, dunque, vivo”.
Non per denaro, ma per amore del padre Giacomo sarebbe pronto a scrivere con maggiore frequenza a Recanati e a donare anche il suo sangue, ma si sa, tra i due è proprio questo fisiologico e reciproco affetto che manca. Per quanto estrema ed azzardata che sia, la lettura di Martone del favoloso giovane marchigiano, stupore di chi assiste alle sue traduzioni o allo sfoggio della sua erudizione, è più che mai nichilista. Nulla sembra essere sufficiente per poter risollevare la condizione di ogni vivente, più che mai di ogni uomo. Non gli studi giovanili, non il timore della morte e della malattia, non il denaro né i sentimenti, non l’amicizia con Ranieri, non l’essere reazionario o progressista, non una fiducia nella scienza e nel progresso.
Nessuna di queste condizioni è sufficiente per poter parlare di pessimismo, tutte, prese insieme, fanno di Giacomo Leopardi un nichilista come nella nota citazione tratta dallo Zibaldone di Pensieri, peraltro presente nel film Tutto è nulla, orrido nulla.
PARERGA E PARALIPOMENA
Di cosa è morto?
Quando scompare una persona che conoscevamo direttamente ma della quale non immaginavamo una morte tanto repentina, la domanda che sorge spontanea è sempre la stessa: di cosa è morto? Su questo aspetto spesso si fantastica, ma quando il confronto è con un noto personaggio storico, esso può costituire addirittura uno spunto di riflessione. Mentre sappiamo bene la causa della morte di Giulio Cesare o di Luigi XVI, poco è noto di personaggi come Alessandro il Grande e dello stesso Giacomo Leopardi. Tra le due ipotesi che hanno coinvolto entrambi vi è quella di un eccesso alimentare. Alessandro sarebbe spirato in preda a delle convulsioni febbrili e ad una sorta di spappolamento degli organi interiori dovuti ad un eccesso di vino e di cibi troppo ricchi di grassi. Non di meno sorbetti, granite, gelati, confetti di cui il conte Giacomo era estremamente goloso ne avrebbero aumentato troppo il tasso glicemico portandolo via dal mondo dei vivi e dei dolci che tanto amava. Ma tra storia e leggenda c’è sempre un confine labile e concettualmente definito: quello del pettegolezzo correlato alla morte. Nessuno si sarebbe aspettato la dipartita dell’uomo più famoso e potente dell’antichità, mentre tutti erano sicuri che gli anni di Leopardi fossero giunti al termine a causa della cagionevole salute di cui purtroppo subiva gli effetti negativi quotidianamente. Esaltazione ed adulazione per il primo, scherno per l’altro, ma in ogni caso entrambi atteggiamenti che non hanno fatto altro che immortalarli da vivi più ancora che per le loro gesta dopo morti. Il povero Giacomo non temeva la sua fine: diceva che morire è come addormentarsi: nulla di così spaventoso. Sarà forse per questo che la sepoltura di uomini particolarmente devoti richiede l’ausilio di chi li dovrebbe accompagnare nell’altro mondo? Quando la fantasia supera la realtà, persino questa situazione diventa estrema. El Greco immagina che a seppellire il conte di Orgaz, devoto uomo di corte di Toledo, siano addirittura Santo Stefano, il primo martire, e Sant’Agostino, grande dottore della Chiesa: una coppia che non può lasciare dubbi sull’esito successivo alla vita terrena di quest’uomo.
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Scheda del film
Regia
Mario Martone
Titolo originale
Il giovane favoloso
Durata
145 minuti
Genere
Biografico, storico, drammatico
Data di uscita
2014
Dettagli dell’opera
Titolo
Sepoltura del conte di Orgaz
Autore
El Greco
Tecnica
Olio su tela
Realizzata nel
1586
Ubicazione