Le origini del Totalitarismo
Il Novecento è stato il secolo che ha prodotto il maggior numero di morti, tra guerre e persecuzioni. La ragione risiede in un fenomeno che non trova antecedenti in dittature ed oppressioni politiche dei regimi precedenti: la forma di governo totalitaria.
Hannah Arendt è un’apprezzata pensatrice, un’affermata accademica ed una fine giornalista. Nel 1961 vive da vent’anni negli Stati Uniti, padroneggia l’inglese ma, come dirà ad una cena e nel corso delle vicende narrate il suo secondo marito Heinrich Blücher, darà il meglio di sé ancora in tedesco. In effetti, a differenza di quanto possa apparire, la sua comunità religiosa e linguistica le sarà sempre a cuore. Ecco perché, non solo per ragioni di opportunità connesse alle sue origini, Il quotidiano New Yorker la invia come corrispondente a Gerusalemme per il processo ad Aldolf Eichmann.
Dalle piacevoli occasioni conviviali iniziali, tutta la trama ora poggia su un perenne dissidio tra la Arendt ed i vari interlocutori. Il conflitto è anzitutto con il suo amico di sempre, Hans Jonas. Si conoscono da quarant’anni e sono colleghi dai tempi del dottorato, ma ora la frattura è insanabile. Hannah si sente incompresa: avrebbe giustificato l’azione dei Nazisti, annullando di fatto quello che Israele stava cercando di portare alla luce. Non si parleranno per anni ed una volta riconciliatisi, non toccheranno più questi argomenti.
Segue un duro scontro con l’opinione pubblica e con la comunità religiosa ebraica: la Arendt sarà dichiarata apolide e priva di ogni tutela religiosa, giacché le sue considerazioni sembravano quasi scagionare Eichmann, il progettista della rete dei campi di sterminio, l’efficiente criminale che conosceva tutti i dettagli della soluzione finale. Infine non mancano le polemiche con gli studenti di Princeton. Le accuse sono oramai estreme: sarebbero morti meno internati nei lager se i loro capi non avessero collaborato ed il popolo ebraico sarebbe colpevole della propria distruzione.
Ma questo è falso, e la prova di quanto la Arendt abbia davvero proferito risiede non solo nel processo di Gerusalemme e nel report che ne deriva, ma nella sua più nota opera di filosofia politica: Le origini del Totalitarismo. Questo libro era già uscito un decennio prima e sarà riedito con delle annotazioni nel 1966, proprio a supporto di una volontà di chiarezza sul fenomeno della Shoah. Il Totalitarismo è la risposta ad un inquietante domanda: com’è possibile che milioni di individui siano stati complici di efferatezze così estese? Non basta la disamina della banalità del male proposta nelle pagine di Eichmann in Jerusalem. Occorre far ricorso a due parole chiave, non a caso titolo del capitolo più noto di questo saggio: Ideologia e terrore. Il Totalitarismo fa a meno del consenso della legge, perché ritiene di esserne incarnazione. Dunque, all’interno del film si parla anzitutto di una nuova ideologia, che non trova eguali nelle epoche precedenti e che introduce la volontà di prospettare un futuro migliore ai suoi adepti, una nuova era di uomini perfetti. La storia e la natura sono piegate dall’uomo. A tale visione, corrisponde simultaneamente un esplicito utilizzo del terrore. Uccidere e spaventare non significa compiere delitti, ma accelerare un processo inarrestabile. Gli strumenti per attuare tutto ciò? La Arendt li elenca sistematicamente: il culto del capo, l’annullamento dell’individualità, seguire dalla culla alla tomba le persone in un iter predeterminato, l’utilizzo massiccio della divisa come segno di uniformità, la presenza di una polizia segreta. La sparizione repentina dei nemici non è una sorpresa: educati alla sola logica che quanto il governo proferisce è il vero, tutti immaginano che siano stati fatti fuori solo dei pericolosi cospiratori, lontani del bene e della giustizia pubblica. Ora il discorso finale del film avrà un senso compiuto.
Accompagnata dalla sua immancabile sigaretta, la Arendt rimarca come sin dai tempi di Socrate e Platone capire e comprendere non significhi perdonare ed accettare. Il suo sforzo interpretativo non solo ha introdotto delle nuove categorie concettuali per definire innocenza e colpa, ma ha fatto luce su come sia possibile che milioni di uomini abbiano lasciato perpetrare degli eccidi.
La loro volontà, la loro individualità, la loro persona è stata annullata. Per questi motivi Eichmann non solo è un criminale nuovo, ma anche ordinario. In un regime totalitario, gli esecutori di atti sconcertati hanno smesso di pensare e di scegliere: non riescono più a discernere bene e male come da sempre la filosofia cerca di fare. Senza alcun giudizio morale, gli uomini non sono più negativamente straordinari, ma banali nel loro commettere azioni sanguinarie, stavolta su scala mondiale.
PARERGA E PARALIPOMENA
Fumare per pensare
Chi ha visto la rappresentazione della Arendt in questo film, chi ha potuto leggerne la biografia, chi si è semplicemente imbattuto in una foto di questa pensatrice sarà rimasto colpito da un particolare non irrilevante: Hannah fumava in modo compulsivo. Lo aveva notato anche Heidegger, quando questa sua giovane e futura assistente gli aveva chiesto udienza per la prima volta. Di primo acchito, gli apparì insolente, presuntuosa ed arrogante: come osava accendersi una sigaretta in sua presenza? Ma quei pestiferi cilindri di carta e tabacco sono l’immagine di una donna, una sorta di suo marchio di fabbrica. Pochi avevano compreso che nelle aule come nelle redazioni, quel vizio mal digerito da una società che scopriva i danni del fumo era un modo per concentrarsi e trattandosi di una filosofa, per pensare. Fumare e pensare: una dicotomia cara a tanti intellettuali. La lista potrebbe essere infinita. Camus, Svevo, Hemingway, Freud, Montale, Baudelaire. Tutti erano perfettamente consapevoli del danno biologico che stavano ricevendo dalle esalazioni nocive che inalavano, ma per loro valeva lo stesso principio della Arendt: era un modo per condensare in un gesto la propria poetica, il proprio pensiero. Questo aspetto è ben noto in chi viene colpito dalle pose di un fumatore incallito, dipendente più dalla gestualità che dalla nicotina: una condizione esistenziale e psicologica. Nel 1926, il reduce della Prima Guerra mondiale nonché abile ritrattista Otto Dix si trova in un caffè ed al suo cospetto c’è la giornalista e poetessa Sylvia von Harden. Le chiede in modo supplichevole di volerla ritrarre, La risposta della donna è piccata: dipingere cosa, chi? I suoi occhi spenti, le orecchie ornate, il naso lungo, le labbra sottili, le mani enormi, le gambe corte non potranno che spaventare la gente e non deliziare nessuno. Ma Dix sostiene che quell’immagine sarà il ritratto di un’epoca. Dopo il disastro della guerra, nessuno pensa più alla bellezza fisica ed all’esteriorità, ma alla condizione psicologica in cui si trovavano gli individui. Era questo che Otto voleva rappresentare in quella gestualità e col portasigarette in bella mostra. Dopo tale discorso, la von Harden accettò di buon grado di posare nelle settimane successive finché il quadro non fosse finito.
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Scheda del film
Regia
Margarethe von Trotta
Titolo originale
Hannah Arendt
Durata
113 minuti
Genere
Biografico, drammatico
Data di uscita
2012
Dettagli dell’opera
Titolo
Ritratto della giornalista Sylvia von Harden
Autore
Otto Dix
Tecnica
Tecnica mista di olio e tempera su legno
Realizzata nel
1926
Ubicazione