Un canestro per Martin Luther King
Lo sport, specie se di squadra, porta implicitamente all’accettazione del gruppo. Reddito, origine, estrazione sociale, colore della pelle dei giocatori non contano di fronte ad un obiettivo comune: vincere una partita. La palla a spicchi ha ribaltato gli stereotipi del razzismo già negli anni Sessanta del XX secolo.
Nel 1965, coach Don Haskins è un giovane alle prese col suo futuro. Allena in una high school e mai avrebbe immaginato di poter passare dal liceo all’università: un salto davvero notevole.
La squadra che dovrà allenare è quella dei Texas Western Miners che ha un deficit non solo tecnico, atletico e fisico, ma anche di investimenti. Mentre Martin Luther King è nel pieno della sua azione di attivismo a tutela dei diritti degli uomini di colore, Don ha un’idea assolutamente in linea col pensiero filosofico del pastore battista: vivere in modo itinerante per toccare con mano la povertà e l’emarginazione, sfidare ogni stereotipo. Se King reclutava nuove anime non violente, Haskins selezionava nuovi prospetti. Se King aveva parlato a Chicago e ad Atlanta della sua “campagna dei poveri” che si sarebbero elevati col pacifismo e la consapevolezza dei loro diritti, Haskins elevava, con metodiche che sfruttavano l’atletismo e la potenza, la qualità del gioco dei suoi Miners.
Dopo durissimi allenamenti, dopo la volontà di disciplinare quegli acerbi talenti, abituati solo a poter giocare per strada, l’attività di coaching si sposta sui principi che lo stesso King predicava: interazione e dialogo fra uomini bianchi e di colore. Questo non poteva che avvenire in funzione di un comune progetto. Non il “sogno” di King, ma quello di chi pratica qualsivoglia sport: vincere. Questo periodo di intenso lavoro tecnico-tattico cementa la squadra, rendendola imbattibile soprattutto per la fine di ogni possibile diffidenza razziale. Non mancano gli episodi di repulsione per gli atleti di colore da parte dei frequentatori dell’università in cui giocano. In fondo siamo proprio ad El Paso nel Texas, Stato noto per i suoi estremismi in quell’epoca storica. Come i seguaci di King, questi giovani cestisti andarono avanti determinati, indifferenti all’ingiustificato odio che c’era attorno a loro. Come Martin Luther, anche Don non ha paura delle minacce per sé e la sua famiglia, né delle aggressioni fisiche e verbali che ha ricevuto. La Kentucky University è la favorita per il titolo, ma nel 1966, la Texas Western dominò la regular season con un gioco attento e corretto, fatto di velocità, contropiede e delle prime schiacciate a canestro operate in modo sistematico a livello di Ncaa.
Solo una sconfitta e l’accesso graduale alla finale. Viene fatto di tutto per spaventarli: il pestaggio di un giovanissimo afroamericano, ogni forma di vilipendio sulle pareti delle loro camere. Nella squadra avversaria della Kentucky tra i dodici atleti, rigorosamente bianchi, c’è anche un ottimo giocatore e straordinario futuro allenatore Nba: Pat Riley. Il discorso della sera prima della finale è tutto un programma. Inizialmente, coach Haskins sembra rimarcare il valore di verità di tutti i luoghi comuni sugli atleti neri, forti, ma senza cervello come scimmie e solo fortunati sino a quel momento: la vittoria in una finale non sarà mai conseguita.
Poi il colpo di scena: è stufo di queste chiacchiere senza fondamento scientifico, etico e civile e farà giocare solo sette dodicesimi della sua squadra per quaranta minuti, ovvero tutti i suoi cestisti di colore.
Mentre l’America xenofoba contesta e minaccia Martin Luther King, i giocatori bianchi di Don Haskins dichiarano con onestà che vorrebbero essere partecipi della gara, ma che cinque fratelli neri dovranno essere agonisticamente cattivi nello starting five della gara di domani. Ancora una volta imbattuti, i Miners saranno anche involontari facilitatori di gesti di lealtà insospettabile da parte degli avversari, inizialmente reticenti anche a scambiare poche parole. Le buone maniere delle persone umili sono contagiose e la poor people’s campaign di King era stato un inequivocabile successo, esattamente come gli schemi di Haskins.
PARERGA E PARALIPOMENA
Il re del playground
L’attività di scouting in ambito sportivo presenta un indiscutibile fascino. Scovare una pietra preziosa in un contesto inaccessibile, avere un occhio chirurgico per saperla individuare in un’indistinta montagna, equivale a comprendere l’inclinazione artistica di un giovane sconosciuto proveniente da una periferia o da un luogo remoto. Ma dove si trovano le promesse dello sport come della musica, della scrittura come della chirurgia? In un laboratorio creativo che non ha una localizzazione ben precisa e che può avere solo un nome: la strada. In modo indiscutibile, anche la più erudita delle persone non può fare a meno del confronto col prossimo, anche con gli sconosciuti. In fondo, esclusi parenti ed amici, a chi si dovrà divulgare il risultato conseguito? Con chi ci si dovrà confrontare a fronte di un severo giudizio, base migliorativa per chiunque desideri prospettare un futuro in un campo della vita? Col pubblico della strada. Ed allora che si parli dei giocatori di street basket, di un suonatore metropolitano, di un imbonitore di quartiere che manipola le parole, di un jazzista che suona il sax e si dedica alla street art, questo non fa la differenza. Questo stile è stata la peculiarità di Jean-Michel Basquiat. In ogni playground che si rispetti, ogni anno si gioca un particolare tipo di torneo: quello che deve eleggere the king, il re del playground, il giocatore più forte. Nella sua produzione, il writer newyorkese nativo di Brooklyn rappresentò spesso una corona. Le interpretazioni sono tra le più varie: elevarsi al rango di sovrano, celebrare le persone che ne riconoscevano il valore, alimentare la sua ambizione di diventare grande. Recentemente la franchigia Nba dei Brooklyn Nets ha voluto omaggiare il grande artista dei graffiti indossando canotte e divise coi temi delle sue opere. In fondo era nativo del quartiere da cui prendono il nome. Basquiat era il primo e più grande re dei playground di New Yorki, anche senza averne mai solcato il parquet pardon, l’asfalto, con un pallone da pallacanestro.
Potrebbero interessarti anche…
Seguici su Facebook
Scheda del film
Regia
James Gartner
Titolo originale
Glory road
Durata
118 minuti
Genere
Drammatico, sportivo
Data di uscita
2006
Dettagli dell’opera
Titolo
Corona
Autore
Jean-Michel Basquiat
Tecnica
Olio su tela
Realizzata nel
1982
Ubicazione