Heimat: l’essere a casa propria
Quanto si deve vagare fisicamente e mentalmente nel mondo per essere a proprio agio? Secondo la filosofia romantica tedesca, questo viaggio senza meta può durare anche l’intera vita.
Poche battute, tanti silenzi che parlano. Kim Ki Duk colpisce per il consueto recupero di temi della filosofia occidentale nel panorama del suo Oriente tecnologizzato. Un giovane dal bel volto vive un’inquietudine romantica di cui è inconsapevole. Entra in assenza dei proprietari nelle case altrui. Non ruba nulla, non cerca feticci di cui appropriarsi, non è incuriosito dagli album fotografici o dai vestiti. Non installa cimici per monitorare la vita di nessuno. Semplicemente conosce ora a pieno un termine: Heimat. In una traduzione fedele e letterale, si tratta della propria patria. In essa vi è un connubio di un luogo fisico e della propria nazione di appartenenza. Ma in modo attento, chi ha letto in questo lemma elementi propri di uno stato d’animo tipico del Romanticismo ottocentesco, ha pensato ad una resa non solo terminologica, ma anche concettuale. Chi vaga per il mondo, spesso, lo fa semplicemente perché nessun luogo è percepito come casa sua. A casa propria si sta bene. Lì abbiamo vinto ogni dolore, abbiamo superato ogni ostacolo. In quel luogo abbiamo tenuto lontano gli affanni, le malattie, le persone negative: non è un locale, uno spazio fisico da riempire. Casa propria è la proiezione di quella che è la nostra essenza al punto tale che un po’tutti esprimono il desiderio di morire tardi e nel letto di casa propria. Il vero romantico è inquieto e tale tratto è detestabile ed incomprensibile dagli altri: ecco perché un pugile professionista di ritorno dalle vacanze con la moglie non la prende bene quando trova due estranei in casa sua.
Cosa vorrà questo vagabondo? Perché insidia la nostra tavola? Perché tenta di sedurre le nostre donne? Vorrà forse spiare tra le nostre lenzuola? Ki Duk ha una soluzione. A questo giovane dal volto pulito che è ovunque incompreso, rimproverato e malmenato come un viandante romantico, ha affiancato una giovane donna imprigionata in una gabbia dorata che non è casa sua. Ha un uomo che non ama, che la forza in tutto, che è spesso violento.
Cerca in questo ragazzo, che ha sviluppato la magica capacità di rendersi invisibile allo sguardo altrui (perché agli altri sgradito) un amore sincero, che la porti lontana dalla sua abitazione, non già casa, poiché sempre sentita come non propria. La redenzione di entrambi? Nell’amore.Non si sa se vero o immaginario, questo legame li alleggerisce. Ora possono sognare, imboccarsi di cibo più buono, essere, finalmente, a casa propria. Quanta sofferenza dà questa leggerezza? Nessuna, al punto tale che su di una stessa bilancia il loro peso è zero.
Parerga e Paralipomena
Il viandante
Spesso siamo soliti attribuire a questo termine l’appellativo dispregiativo di vagabondo, ovvero di un uomo senza fissa dimora che per colpe personali o per sfortuna si è ridotto ad essere in uno stato di assoluta povertà. Tuttavia, prima che imperversasse la logica di una classificazione forte delle psicopatologie, il viandante assunse non già significati negativi o intrisi di un mero male dell’anima, ma una sorta di stato di necessità di aveva bisogno di vivere in un perenne girovagare, in maniera indipendente dalla propria volontà. Nessuno sceglie consapevolmente la malattia del corpo e quando questa tocca l’anima i suoi effetti sono meno evidenti per chi assiste allo strazio del dolore dall’esterno. Dunque il viandante non è un matto che popola le strade di ogni luogo del mondo, ma chi vorrebbe tanto essere sereno e stabile nella vita trovando davvero “casa propria” al di là di ogni tenore di vita e di ogni forma consolidata di affetto. Sarò forse questo il motivo per cui tanti viaggiatori erranti nelle nostre strade sono di origine tedesca? Chi lo sa. In ogni caso, un chiaro esempio di primo adottante del Wanderer come temporaneo stile di vita è stato prima ancora del Romanticismo il grande Goethe. Ha oramai trentasette anni, un successo pieno in ambito letterario e sociale, è celebrato da tutti e almeno teoricamente non più sofferente per amore. Ma scrive al duca Carlo Augusto qualcosa di significativo, ancor di più del suo stupendo “Canto notturno del viandante” per descrivere la propria situazione “Tutto questo e varie altre circostanze concomitanti mi spingono e mi costringono a smarrirmi in regioni del mondo ove nessuno mi conosca. Parto solo, sotto nome incognito, e da quest’impresa apparentemente stravagante mi riprometto il meglio possibile”. Goethe avrà trovato casa sua? Nello stesso biennio in cui pubblica il Viaggio in Italia, Caspar David Friedrich dipinge il Viandante sul mare di Nebbia. Circa venti anni dopo Carl Spitzweg completa il viaggio e porta ogni viandante a casa sua nella sua tela Il poeta povero. Non importa quanti soldi siano stati messi da parte. Non conta che un ombrello debba turare i buchi della soffitta, che non vi sia legna per la stufa, che le finestre presentino vetri rotti, che il catino sia privo di acqua e la bottiglia di vino: ora l’artista ha un posto dove comporre serenamente i versi che più ama e quella è casa sua. Il Romanticismo sta per finire già nel 1838? Magari è così, magari no, ma ad una certa età bisogna pur appendere al chiodo tuba, cappotto, bastone e stivali…
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Scheda del film
Regia
Kim Ki-Duk
Titolo originale
Bin-Jip / 3 – Iron
Ferro 3
Altri titoli
La casa vuota
Durata
95 minuti
Genere
Drammatico, romantico
Data di uscita
3 Dicembre 2004
Dettagli dell’opera
Titolo
Il poeta povero
Autore
Karl Spitzweg
Tecnica
Olio su tela
Realizzata nel
1839
Ubicazione